LA TERZA MADRE DI DARIO ARGENTO
di Arnaldo Casali
Una delle scene più divertenti del film corale “Il cielo è sempre più blu”, girato da Antonello Grimaldi nel 1996, è quella in cui Dario Argento, parlando con un frate francescano, gli confessa che da bambino aveva il terrore che gli apparisse la Madonna.
“La pregavo sempre chiedendole di non apparirmi mai – dice il maestro del cinema horror – e devo dire che mi ha esaudito!”.
Della Madonna, in realtà, il piccolo Dario non aveva mai avuto paura, ma che la religione abbia avuto un ruolo determinante nel trasformare il giovane rampollo di una famiglia di cineasti (il padre era produttore, la madre fotografa delle dive) nel maestro del brivido preso a modello da artisti del calibro di John Landis, Wes Craven e John Carpenter, è lui stesso ad ammetterlo.
“Io sono un credente, e il cristianesimo mi ha senza dubbio insegnato a riconoscere il maligno, ad averne la consapevolezza, e di conseguenza, la paura”.
Al festival “Le vie del cinema” di Narni per presentare la copia restaurata del suo secondo film, “Il gatto a nove code”, uscito nel 1971, Argento ha regalato ai suoi fan ghiotte anticipazioni della sua nuova, attesissima opera: “La terza madre”, girata in gran parte negli studios di Papigno.
“All’Umbria sono legatissimo, non solo perché è una delle regioni più belle d’Italia, ma perché qui ci sono le mie radici. Mio padre, infatti, era di Perugia, e poi qui ho girato molti film: dalla “Sindrome di Stendhal” alla Cascata delle Marmore, fino a questo ultimo lavoro, che uscirà in autunno”.
Come si è trovato a girare negli studios di Papigno?
“Benissimo. A Papigno si lavora molto bene perché è un’oasi di tranquillità a due passi da Roma. E poi gli studios sono entrati nell’orbita di Cinecittà, che raccomanda questi stabilimenti proprio per le produzioni cinematografiche. A Roma, ormai, si fa solo televisione, qui invece ci sono teatri di posa immensi, tra i più grandi d’Europa, con dei soffitti altissimi. Inoltre io avevo bisogno di poter realizzare molti effetti speciali, e qui c’è un teatro dotato di bluescreen e persino di una piscina. E poi a Terni si mangia bene e la troupe lavora bene perché è contenta, a Roma, invece, sono tutti sempre molto nervosi”.
Il film che ha girato qui, “La terza madre”, è uno dei più attesi della storia del cinema. Sono anni che i siti internet di appassionati dell’horror ne parlano.
“E’ il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 1977 con “Suspiria” e continuata nel 1980 con “Inferno”. Al centro del ciclo di film ci sono tre creature degli inferi: la Madre dei Sospiri, la Madre delle Tenebre, e la Madre delle Lacrime. Nel primo c’era la madre dei Sospiri, nel secondo la Madre delle Tenebre. Questo terzo parlerà della madre delle Lacrime”.
Perché ha aspettato quasi trent’anni per completare la trilogia?
“Perché dopo “Inferno” la mia carriera ha preso una piega diversa. Ho fatto soprattutto dei thriller, allontanandomi dal fantastico. Qualche anno fa, però, mi è venuta un’idea e ho cominciato a lavorarci sopra, pensando che poteva essere quella buona per questo terzo capitolo. Devo dire che nella decisione di impegnarmi in questo progetto hanno influito molto le esperienze negli ultimi anni in America: lavorare nelle due serie di “Masters of Horror” mi ha riavvicinato all’orrore puro, quello fatto appunto di creature demoniache e infernali, che avevo abbandonato vent’anni fa”.
Sua figlia Asia è stata protagonista di molti suoi film, anche se in realtà è stata lanciata da Nanni Moretti, Michele Placido e Carlo Verdone.
“Asia mi piace molto come attrice. Adesso siamo anche colleghi visto che ha intrapreso la carriera di regista e il suo primo film – “Scarlet Diva” – l’ho prodotto proprio io. C’è stato un lungo periodo in cui siamo stati lontani; oggi è bello essersi ritrovati”.
E’ proprio Asia, infatti, la protagonista di “La terza madre”. In questo film torna anche Daria Nicolodi: sceneggiatrice del primo capitolo, e interprete del secondo, ma anche sua ex moglie e madre di Asia.
“La famiglia si è riunita. Solo per il film, però”.
In questi trent’anni è cambiata molto la tecnologia degli effetti speciali. Rimpiange i vecchi trucchi artigianali?
“Assolutamente no. Sarebbe come, nell’era dei cellulari, rimpiangere i piccioni viaggiatori. Il computer è fantastico; certo che è finto, ma il cinema non deve essere vero, deve sembrare vero. Trent’anni fa, per esempio, per gli effetti ottici dovevi fare tutto con i cristalli, oggi puoi cambiare tutti i colori di una scena dopo averla girata. Allora eri pieno di limiti, e i risultati – poi – si vedevano. E poi il fatto di avere limiti oggettivi, finiva per limitare anche la tua fantasia; oggi puoi fare tutto, tutto quello che ti viene in mente”.
Cosa ricorda di “Il gatto a nove code”, il cui restauro è stato presentato a Narni?
“Una grande fatica. E’ stato il mio secondo film, e la lavorazione fu molto più difficile, perché quando fai il secondo film non solo devi confermare le aspettative che hai creato, ma devi dare qualcosa di più. Fu un film impegnativo e stressante. E alla fine non mi ha troppo convinto: quando l’ho visto ho pensato che somigliava troppo ad un film americano, eppure ebbe più successo del primo”.
Alla base della storia c’era un idea molto avveniristica sull’ingegneria genetica.
“Sì, e cioè che dal dna di una persona si possa capire la sua predisposizione alla violenza. Usai attori che venivano da provenienze diverse. Tra questi c’era Karl Malden, celebre attore americano, insegnante di Marlon Brando e che sarebbe diventato poi anche presidente dell’Academy che assegna gli Oscar. Ecco, il rapporto con gli attori fu davvero bello, e memorabile”.
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