INTERVISTA A FRANCESCO MUNZI
Regista di "Saimir". "Fare un film è difficile, farlo vedere difficilissimo"
 Saimir
è un sedicenne albanese emigrato in Italia che vive in un sobborgo del
litorale laziale, dove suo padre Edmond gestisce un piccolo traffico di
immigrati clandestini. Respinto dai coetanei italiani, Saimir finisce
per entrare in un giro di microcriminalità ma si riscatta tentando di
salvare una minorenne avviata alla prostituzione.
E’ questa la storia raccontata da Saimir, opera prima di Francesco Munzi, presentata in concorso alla Mostra di Venezia e in presentato a Cinema &/é lavoro 2005.
Romano, 35 anni, Munzi si è laureato in
Storia contemporanea e poi ha frequentato il Centro sperimentale. Dopo
una serie di documentari e cortometraggi ha potuto realizzare il suo
primo film grazie all’interesse di tre giovani produttori e a un
finanziamento statale, ottenuto dopo tre anni di disavventure
burocratiche.
Perché hai deciso di raccontare la storia di un immigrato albanese?
“Da una parte mi interessava un contrasto tra padre e figlio, che è un
tema universale, dall’altro ci tenevo a parlare di quel mondo”.
Non è mondo molto esplorato dal cinema italiano...
“Proprio per questo sentivo il bisogno di
farlo. Sono cresciuto con una cinematografia che ha perso il
contatto con la realtà, adeguandosi al modello televisivo. In realtà le
cose un po’ stanno cambiando: proprio quest’anno sono usciti
altri due film - quello di Giordana e quello di Vicari - che hanno
tematiche vicine alla mia. Significa che c’è un po’ di voglia di capire
certe cose”.
Cosa ti è rimasto di quest’esperienza?
“E’ stato sicuramente molto importante il lavoro
di preparazione. All’inizio la sceneggiatura sapeva di ‘chiuso’, di
scrittura a tavolino. Il viaggio che ho fatto in Albania, le persone
che ho conosciuto, hanno dato un forte contributo al film”.
Anche gli attori?
“Sì, in gran parte erano non professionisti. Il protagonista l’ho
trovato per strada. E devo dire che si è creata una bella alchimia tra
i non attori - molto generosi - e i professionisti, più strutturati”.
Per un giovane regista, oggi, è più difficile fare un film o farlo vedere?
“La cosa più difficile in assoluto è la
distribuzione, perché richiede molti soldi e non è prevista nei fondi
pubblici. Ci sono moltissimi film che vengono fatti ma poi non
circolano nelle sale, anche perché sono sempre le commedie ad essere
predilette”.
In Italia manca anche un po’ la cultura del mestiere del regista. Di solito diventano registi gli attori o gli sceneggiatori.
“Perché in generale in Europa abbiamo una cultura umanistica. In
America, il regista è una figura più tecnica, ma conta molto meno
rispetto al produttore; qui invece è il regista ad avere la
responsabilità del film. Comunque vedo una grande ventata di
rinnovamento, da questo punto di vista, e mi sento ottimista. Il
problema è che in Italia tendiamo a sperare poco e lamentarci tanto”.
Arnaldo Casali
www.saimir.it
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