A Hollywood, tra gli studi cinematografici e le ville delle star, c’è anche una casa di riposo, dove vivono - abbandonati e dimenticati da tutti - attori, tecnici e artisti che hanno fatto la storia del cinema.
E’ questa l’idea che sta alla base di
Man in the chair di Michael Schroeder, uno dei film più belli, intensi e originali visti quest’anno al festival
Cinema è/& lavoro.
Proiettato in seconda visione assoluta (era stato presentato solo al festival di Berlino, e uscirà negli Stati Uniti in autunno), il film ha ricevuto il più lungo applauso della storia del festival ed è stato introdotto dallo stesso regista e da Stefania Sandrelli, ospite di punta della serata di mercoledì.
La storia - capace di integrare tematiche e linguaggi molto diversi - vede come protagonista Cameron Kincaid, diciottenne californiano alle prese con un cortometraggio da presentare ad un concorso scolastico.
Il suo sogno è quello di diventare “L’uomo sulla sedia”, ovvero il regista. Per realizzarlo si fa aiutare da Flash Madden, elettricista ottuagenario che aveva lavorato con Orson Welles in
Quarto potere, (che ha conosciuto in una sala cinematografica) e da un gruppo di vecchi tecnici e artisti che vivono abbandonati dalle famiglie e dimenticati dallo star-system, come Mickey Hopkins, sceneggiatore di
Via col vento e
Vacanze romane, e Murphy White, che come direttore della fotografia aveva anche vinto un Oscar.
La collaborazione che unisce i due anelli deboli della società (gli adolescenti e gli anziani) dà vita ad un documentario che viene dedicato - non a caso - alle terribili condizioni in cui versano gli anziani, in una società, come quella americana, “dove tutto viene consumato in fretta e poi buttato via e dimenticato”.
Una finzione? Fino ad un certo punto. Se proprio all’interno dello stesso festival è stato infatti proiettato un documentario su un tema analogo (In coda ai titoli, dedicato agli anziani macchinisti, elettricisti e sarti di Cinecittà) è lo stesso Schroeder a spiegare di essersi ispirato alla realtà.
“L’idea di questo film mi è venuta quando ho scoperto che a Hollywood esiste una casa di riposo per tecnici e artisti del cinema. E alcuni degli interpreti del film vivono veramente in quel luogo, ed è stato anche un modo per farli lavorare”.
Con questa pellicola solleva delle tematiche particolarmente scottanti.
“Negli Stati Uniti la condizione degli anziani è molto grave. La nostra è una società consumistica, e il consumismo viene applicato anche ai sentimenti. Un cane che ha stancato viene abbandonato e poi ucciso, un anziano viene emarginato e dimenticato”.
Purtroppo non succede solo negli Stati Uniti.
“Ho girato il mondo e posso dire di aver conosciuto delle culture diverse: in Africa e in Asia l’anziano è rispettato e ascoltato. E’ un punto di riferimento per la comunità.
Da noi è solo un parassita”.
E’ un problema sociale che deve essere risolto a livello politico?
“Non so quanto possa incidere la politica. Io ho fatto questo film con la speranza, che dopo averlo visto, a qualche spettatore venga voglia di chiamare la madre, il padre o il nonno e passarci un po’ di tempo insieme”.
Con questa storia di amore tra due generazioni tanto lontane e diverse è riuscito a commuovere tutta la platea del cinema Fedora.
“Non è solo il pubblico ad essere commosso. Posso assicurarle che anche noi, mentre giravamo alcune scene, ci siamo messi a piangere. E’ successo anche a me e agli attori”.
Da chi è stato prodotto il film?
“L’ho prodotto io stesso, andando a cercare dei finanziatori. Il costo è stato molto basso, meno di quattro milioni di dollari. Ora ha trovato la distribuzione di una major in America, e - conseguentemente - dovrà poi trovarla anche nel resto del mondo”.
Pur essendo una piccola produzione si avvale di un cast con attori di grande prestigio, come Christopher Plummer.
“E’ un attore straordinario, e si è molto appassionato al progetto. Durante la lavorazione del film è stato il suo compleanno e ha dato una grande festa nella sua villa: è stato buffo trovarsi in mezzo a tante star come Al Pacino e Robert De Niro che mi trattavano come uno di loro”.
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